7 Agosto 2024
Carla Vitantonio è cooperante, autrice, attrice. Ha lavorato come capo missione per Ong internazionali in Corea del Nord, dove ha passato quattro anni, in Myanmar e a Cuba, dove oggi vive. Si occupa di colonialità, gestione di crisi umanitarie, giustizia sociale e inclusione. Per il suo impegno è stata nominata nel 2022 Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Dal 2023 è nel consiglio della International Humanitarian Studies Association. Per add editore ha pubblicato Pyongyang Blues, che è diventato anche un podcast, e Myanmar Swing.
Carla, vuoi parlarci di te e dirci dove vivi attualmente? Come e perché hai lavorato in Corea del Nord?
“Arrivare a lavorare in Corea del Nord faceva parte di quello che nei miei libri chiamo “il mio piano infallibile”, ovvero il mio tentativo di cambiare carriera a un’età in cui in genere nel nostro mondo ci si aspetta che una persona sia incamminata su un sentiero lavorativo ben definito. Se mi avessero detto, solo due anni prima del 2012 (anno in cui arrivai a Pyongyang), che lo avrei fatto, non ci avrei creduto. E anche una volta finalmente sbarcata nella capitale nordcoreana, con la mia unica valigia rossa e una giacca che mi aveva regalato il mio professore, non avevo idea di quanto questo mi avrebbe cambiato la vita. Ad ogni modo è andata così. Sono andata in Corea del Nord nonostante tutti mi dicessero che fosse impossibile, anzi in parte proprio per questo, e per gran parte del mio tempo trascorso lì, quattro anni, ho fatto la cooperante. Mi occupavo di diritti delle persone disabili. È stata un’avventura incredibile”.
Hai avuto occasione di interagire con i nordcoreani?
“Se vivi quattro anni in un posto bene o male qualche interazione devi averla, persino in Corea del Nord. Tutti i miei colleghi erano coreani, salvo uno. La Corea del Nord, se tralasciamo l’aspetto politico, è un Paese molto più normale di quello che si pensi. I coreani passeggiano, vanno al ristorante, hanno delle birrerie (ottima birra la cui preparazione fu appresa dai cecoslovacchi ai tempi del blocco sovietico). In primavera sgranocchiano pesce secco sui tavolini di pietra e metallo fuori alla stazione centrale, si innamorano, fanno i pic-nic nel fine settimana, vanno alla sauna … e anche io facevo tutto questo. Però, a parte i miei colleghi, tutte le interazioni erano casuali e non c’era possibilità di approfondire un’amicizia. I coreani non possono usare le stesse linee telefoniche che usano gli stranieri, non possono uscire con loro. La vita dei coreani è scandita dai loro obblighi pubblici e privati e da moltissimi divieti. Questo mi ha sempre rattristato, ma è così. Poi ci si abitua a godere di tutti i momenti di incontro fortuito o casuale, si creano legami al di là delle distanze. Cose che non si dimenticano più, forse proprio per questa difficoltà”.
Come era organizzata la tua giornata in Nord Corea? Avevi l’opportunità di muoverti liberamente e interagire con le persone del luogo?
“L’organizzazione delle giornate cambiava molto a seconda delle stagioni. Con il freddo intensissimo dell’inverno, per esempio, si stava praticamente chiusi tra la casa e l’ufficio e si facevano solo pochissimi passi per andare a trovare qualche amico cooperante che viveva nell’edificio vicino. Nella bella stagione invece, a parte che molto del lavoro si faceva fuori Pyongyang, nelle provincie, anche la nostra vita cambiava. Dico nostra per dire dei cooperanti e dello staff non coreano. Nel fine settimana potevamo fare un pic-nic, andare al lago, in montagna. Non eravamo liberi di muoverci. O meglio, gli stranieri che vivono a Pyongyang sono liberi di muoversi nella zona metropolitana (che include il laghetto e la montagna di cui ho appena parlato), però debbono chiedere un’autorizzazione per uscirne. E non è detto che gliela concedano. E anche per ciò che riguarda Pyongyang, molte cose non si possono fare. Per esempio, noi non potevamo prendere i mezzi pubblici. Non potevamo entrare in tutti i mercati, ma solo in alcuni specifici. Una volta mi intrufolai in un posto proibito, non so cosa mi passò per la testa. Me la vidi piuttosto brutta”.
Che lingua parlano nel Paese? Esistono differenze con l’idioma della Corea del Sud?
“In Corea si parla il coreano. Non dimentichiamo che per molti secoli la Corea è stata un unico Paese, molto coeso e molto chiuso verso l’esterno. Infatti, lo chiamavano “il regno eremita”. La divisione in due avvenne dopo la Seconda guerra mondiale. Per questa ragione tutti i coreani parlano la stessa lingua, che però si è evoluta diversamente al Nord e al Sud. Al Sud, per esempio, si è mescolata molto con parole di origine statunitense. Inoltre, al Nord si usano più frequentemente registri formali e l’accento è diverso. Ma due coreani che si incontrano si capiscono perfettamente, anche se uno è di Pyongyang e l’altro di Seoul. Io parlo un poco di coreano. Mi piaceva riuscire a interagire, almeno quel minimo indispensabile al ristorante, o con la fisioterapista che mi aveva come paziente. I coreani poi sono contentissimi quando sentono che ti sforzi di parlare la loro lingua”.
Come valuteresti le condizioni di vita e lavoro del popolo nordcoreano?
“Se hai letto i miei libri sai che io non giudico. E questo fa parte di tutto quel lavoro sulla colonialità che faccio da anni, soprattutto su quella che permea il nostro settore lavorativo. Per esempio, la presunzione di arrivare ad “aiutare”, di venire “da un posto migliore”, di essere i “buoni”. In inglese lo chiamano fardello dell’uomo bianco. In fondo è una forma di razzismo. Io dico sempre che non valuto, racconto, poi le valutazioni le fa chi legge. La Corea del Nord è un posto complesso, misterioso, difficile da comprendere e pieno di contraddizioni. È colmo di bellezza e di tragedia. Io ho provato a raccontarne aspetti altrimenti sconosciuti, ho provato ad andare oltre le usuali dicotomie e le propagande di ogni parte. Penso pure di esserci riuscita, perché più di una volta qualcuno, dopo aver letto i miei libri, mi ha chiesto cosa pensassi della Corea del Nord e io rispondevo di non sapere cosa pensare, ma che viverci è stato difficilissimo, lontano da tutto ciò che conoscevo, da ogni punto di riferimento, e forse proprio per questo indimenticabile.
Forse con questa domanda volevi solo sapere qualcosa in più della quotidianità delle persone in Corea? Se è così, posso dirti che i coreani e le coreane hanno giornate molto lunghe, perché al loro lavoro e ai loro compiti domestici si sommano i lavori comunitari, inclusi alcuni turni di guardia notturna che sono organizzati dalle istituzioni dove lavorano, o dai comitati che gestiscono gli edifici abitativi. Lavorano molto, e spesso in condizioni difficili, poca elettricità, poca acqua. E poi, se sei in campagna la tua vita è ancora diversa. L’inverno coreano è durissimo. Però come dicevo, la vita di una persona coreana non è scandita solo da doveri”.
Un tuo ricordo personale o un episodio legato a questo paese che vorresti condividere con noi.
“Ce ne sarebbero tantissimi, davvero. Peraltro, molti li racconto sia nel mio libro, sia nel podcast che feci nel 2021 e che si chiama “Appuntamento a Pyongyang”: si trova su tutte le piattaforme podcast. Forse una cosa che mi fa molta tenerezza, sono le ragazze sull’argine del fiume Taedong che imparavano a pedalare sulle loro biciclette cinesi. Infatti, per molto tempo il governo aveva proibito alle donne di andare in bicicletta. Proprio nei primi mesi della mia permanenza questo cambiò. Fu bellissimo vedere tutte queste ragazze che ridevano, che provavano, che cadevano e si rialzavano. Bello”.
Consiglieresti a qualcuno un viaggio in Nord Corea? E tu stessa pensi di tornarci?
“La Corea si è blindata durante il Covid, tutte le ambasciate hanno chiuso, e così le ONG. Non so se qualcuno abbia riaperto, non so nemmeno se abbiano ricominciato i viaggi organizzati. Io consiglio molto il viaggio, ma come ci si può immaginare viaggiare in Corea è possibile solo se autorizzati. Ai miei tempi c’erano due agenzie a Pechino che organizzavano il viaggio. Io tornerei certamente in Corea, ma solo per lavoro. In vacanza a me piace andare in Italia, specialmente in Molise”.
Quali sono i tuoi canali social, i tuoi libri?
“Tutti i miei podcast, sia in italiano sia in inglese, sono su Spotify, Apple podcast e speaker. È sufficiente digitare “Carla Vitantonio”. Sono molto attiva su Linkedin, dove condivido anche i link dei miei blog e articoli dedicati al mondo dell’aiuto umanitario e alla colonialità. Mi trovate anche su Instagram. Pubblico pochi contenuti, ma cerco sempre di avvisare se sono in tour, e di caricare qualche pezzo importante di una conferenza o di un dibattito cui partecipo. Purtroppo in italiano praticamente non scrivo più, e non so se lo farò ancora, anche se ogni tanto mi invitano a qualche festival a parlare, e io ci vado sempre volentieri. In questo caso le informazioni di solito sono sul mio canale Instagram e sul mio sito lucilleidi.net. Poi ci sono i miei tre libri, disponibili in italiano, tutti pubblicati da Add editore, che parlano dei paesi dove ho lavorato: Corea del Nord, Birmania, e Cuba”.